Lo SPID, l’infoplutocrazia e il primo sito web dell’Inter
Intervista a Stefano Quintarelli, pioniere dell’internet italiano
Ciao, sono Ale.
Questa edizione di Payload sarà un’intervista. L’ospite è Stefano Quintarelli, uno dei pionieri in Italia per quanto riguarda Internet.
Stefano non è uno che ha semplicemente assistito alla nascita di Internet in Italia: l’ha costruita.
Nel 1989, ancora studente, ha fondato la prima associazione telematica studentesca italiana, e nel 1994 ha creato I.NET, il primo Internet Service Provider professionale del paese, contribuendo a costruire gran parte dell’ecosistema internet italiano.
Non male per uno che si definisce semplicemente “informatico interessato all’IT dal 1979”.
Dal 2013 al 2018 è stato deputato, membro della Commissione per i diritti e i doveri in Internet della Camera dei Deputati e leader dell’Intergruppo parlamentare per l’innovazione tecnologica.
È stato lui a ideare lo SPID e la strategia informatica della Pubblica Amministrazione, e dal 2014 al 2021 ha presieduto il Comitato di indirizzo dell’Agenzia per l’Italia Digitale.
Ha poi fatto parte del Gruppo di esperti di alto livello sull’intelligenza artificiale della Commissione Europea e presieduto l’Advisory Group on Advanced Technologies for Trade and Transport delle Nazioni Unite.
In sostanza, è uno dei pochi in Italia che può parlare di digitale, politica e futuro senza che nessuno gli chieda le credenziali.
Hai un curriculum che definirei disarmante per chi deve presentarti brevemente a un pubblico. Oggi, come ti piace definirti o presentarti?
Attualmente, gestisco un fondo di venture capital, con una lunga – come direbbe Indiana Jones – chilometrica storia professionale alle spalle.
Dunque, l’attualità è quella del gestore di Venture Capital. È un mercato europeo o internazionale?
Abbiamo una quota di investimenti all’estero, quindi non siamo focalizzati solo sull’Italia. Il nostro focus preferenziale è lavorare con founder italiani che hanno fatto una esperienza all’estero.
C’è un dibattito sulla diversa velocità del nostro mercato rispetto alle dinamiche internazionali...
Se si guardano i numeri, il dibattito non sussiste. La quantità di capitali investiti in Italia, rispetto all’Europa, è minima. In Europa, rispetto agli Stati Uniti, è minima. Siamo un “minimo al quadrato”. Questo deriva dalla mancanza di una grande tradizione di imprenditori che creano una prima, seconda e terza impresa, e di una diffusione della cultura dell’imprenditoria digitale legata alle start-up (anche se si può fare un’azienda digitale dignitosissima, con buona crescita, senza che sia una start-up).
Il lavoro di un fondo è prendere soldi e restituirli aumentati a chi ce li ha affidati. Per fare ciò, entriamo in un’azienda e a un certo punto dobbiamo uscirne, vendendo le nostre quote. Chi ha i maggiori capitali per comprare? Gli americani. Gran parte del nostro lavoro è aiutare le aziende a crescere, non solo in Italia, ma anche a livello internazionale. Tutte le nostre aziende in portafoglio hanno attività internazionali. Inoltre, ci occupiamo di farle conoscere ai fondi internazionali. Nel mondo delle start-up, dopo la fase Series A, i fondi americani cominciano a giocare in Europa, dal Series B in poi. È lì che ci sono opportunità per generare buoni rendimenti. I fondi europei di VC hanno rendimenti spesso migliori di quelli statunitensi perché operano in una fase più precoce della vita aziendale e poi vendono a loro, che arrivano con capitali molto più consistenti. Sebbene la quantità di start-up in Europa sia paragonabile o superiore a quella statunitense, è difficile – se non impossibile – creare in Europa un’azienda da decacorno.
Però il mercato presenta caratteristiche che rendono l’investimento interessante?
L’Europa investe 70 miliardi all’anno in capitale di rischio pre-IPO, contro i 1300 degli Stati Uniti. Per cui, a un certo stadio, se vuoi crescere ulteriormente, prenderai capitali americani. Questi fondi richiederanno di trasferire l’headquarter nel Delaware. Non dobbiamo essere spaventati da questo, ma cavalcarlo. Israele ha costruito la sua fortuna così: l’importante è mantenere una quota rilevante di intelligenza e l’attività di Ricerca e Sviluppo nel paese. Le aziende sono incorporate o commercialmente attive negli Stati Uniti, ma il cuore aziendale rimane in Israele. Abbiamo persone di talento. Se uniamo italiani che hanno fatto esperienza all’estero, che hanno conoscenza delle “liturgie” del settore – che qui non ti insegna nessuno – e li aiutiamo a innestarsi sul bacino di tecnici e imprenditori italiani, i rendimenti si possono fare.
Tra l’imprenditore e l’idea non c’è il successo. Come si dice, il successo è l’un per cento ispirazione e il novantanove per cento sudorazione. Non basta l’idea, bisogna anche lavorare. Poi servono i capitali, e devi sapere come gestire l’azienda, il consiglio di amministrazione, gli investitori, come negoziare le clausole.
Una cultura della crescita e della gestione veloci.
Esattamente. C’è una conoscenza specifica che non è quella del capitale di rischio da prestito bancario. Ripeto: tante aziende che nascono qui nel Nord-Est sono dignitosissime, ma con potenziali di crescita più limitati, per cui chi le aiuta fa un lavoro diverso dal nostro del Venture Capital. Alcune idee, invece, hanno una potenzialità di scalare e moltiplicare i ricavi per tre o per quattro ogni anno per più anni. Queste aziende necessitano di capitali che non danno le banche, ma i fondi di venture.
Anche l’imprenditore adesso pensa all’exit. È una cultura che da noi non è diffusa. Per questo cerchiamo di supportare italiani che hanno già lavorato e fatto esperienze in questo tipo di mercato. Si rivolgono al mercato internazionale perché l’exit la si fa con operatori internazionali, dato che in Europa, rispetto agli USA, ci sono pochi soldi.
Sembra un tentativo di emancipare la nostra cultura aziendale.
Certamente.
Tra tutti i tuoi primati c’è quello di aver portato internet in Italia – hai il merito di essere stato il primo Internet Service Provider italiano, e dalla tua sede è nato il MIX di Milano...
Beh, eravamo diversi soci… poi l’affermazione di aver portato internet in Italia è forse eccessiva. Bisognerebbe mettersi d’accordo sulla definizione di Internet. Oggi si confonde Internet con il Web. Quando siamo partiti con la mia azienda, l’unico browser era NCSA Mosaic, un browser su workstation SUN. Poi c’era un browser su NeXT. Non c’era praticamente altro. C’erano circa 2.000 server web al mondo, una quantità ridicola. Internet era sostanzialmente gestito via terminale, con posta elettronica, Gopher, Archie, WAIS – cose che oggi la gente non conosce.
Quando partimmo, nel 1994, siamo stati i primi a dare un indirizzo IP, ossia a fornire il servizio Internet nel senso che il cliente diventava un nodo della rete. Questo è stato possibile perché nel 1992 la direttiva europea Open Network Provision aveva aperto i servizi di telecomunicazione a fornitori privati, non monopolisti statali. La direttiva fu recepita in Italia nel ‘94.
Un aneddoto interessante: appena decidemmo di partire, il mio professore, Gianni Degli Antoni, fondatore dell’informatica a Milano, mi presentò a Milly Bossi Moratti. Massimo Moratti aveva deciso di comprare l’Inter, ed era l’autunno del ‘94. Degli Antoni ci disse: “Dovete fare il sito web dell’Inter.”
Io e il mio socio andammo a casa di Massimo Moratti e, con Milly che cucinava e i figli Mao e Gigio che venivano a vedere incuriositi, scrivemmo i testi del primo sito web dell’Inter nel salotto. Fu probabilmente il primo sito di una squadra sportiva al mondo. All’epoca c’erano solo i testi sul Web; le immagini e gli sfondi colorati sarebbero arrivati poco dopo. Tutto questo con il supporto di Apple, il cui direttore marketing a Milano all’epoca era un signore di nome Diego Piacentini.
Diego che poi ho conosciuto quando è stato Commissario Straordinario...
Esatto. Quando ero in Parlamento, con alcuni colleghi stavamo lavorando alla revisione del Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD). Ci dicemmo: possiamo fare una bellissima norma, ma resterà inapplicata come in passato, perché le amministrazioni non la applicano e non ci sono sanzioni. Per dare impulso, abbiamo pensato di istituire la figura del Commissario con poteri sostitutivi. L’idea era che ci fosse qualcuno in grado di dire all’amministrazione: “Se non lo fai, ti tolgo il budget e lo faccio io.” Di fronte a questa prospettiva, le amministrazioni hanno cominciato a muoversi.
Dalle origini di Internet che hai descritto, sei arrivato a teorizzare l’infoplutocrazia, il dominio di pochi che detengono il patrimonio informativo. Qual è il grado di percezione che abbiamo oggi di questo fenomeno?
Oggi è alto. C’è stato l’intervento del DOGE (Department of Government Efficiency), il sostegno di Thiel, Andreessen, Musk, Trump. Si vedono chiaramente.
Scrissi il libro quando arrivai in Parlamento nel 2013, un arrivo casuale su chiamata di Monti. Dopo un grave incidente, sono tornato in Parlamento alla fine del 2013. Visto che il mio gruppo politico aveva subito scissioni, decisi di fondare l’Intergruppo parlamentare per l’innovazione, con oltre 100 parlamentari iscritti.
Mi resi conto che c’era grande fame di capire che fenomeni come Amazon, Booking e Uber, o i problemi di elusione fiscale, avevano la stessa matrice.
Così, scrissi il libro – distribuendone una copia a ogni parlamentare – dove spiegavo la matrice comune, come funzionava la tecnologia e gli effetti su media, lavoro e pagamenti. Lì ho introdotto l’idea degli infoplutocrati, i plutocrati dell’informazione che diventano intermediari monopolisti e governano i mercati.
E oggi, con l’elenco di nomi che hai fatto, le storture sono sotto gli occhi di tutti.
Sì, oggi è evidente a tutti. Dodici anni fa non lo era così tanto. Il libro si è evoluto rispetto alla stesura iniziale; nell’ultima versione del 2019 si intitola molto opportunamente Capitalismo Immateriale. Sta andando bene, ha avuto otto edizioni.
Di sicuro ha superato la prova del tempo.
Assolutamente. Mi ha scritto di recente un alto dirigente di una delle grandi società di consulenza, dicendo che rileggendo il libro di recente, è incredibile quanto mantenga la sua attualità. Il libro va a fondo, spiegando le basi del fenomeno, e le basi non cambiano.
Non posso non farti una domanda su SPID. Sei il teorico dell’identità digitale unica, poi concretizzata con il tuo intervento. Tra l’utilizzo solo della CIE e l’identità europea in arrivo, stiamo andando avanti o indietro?
Facciamo un po’ di storia. Nel 2011-2012 un amico dell’MIT mi coinvolse in un think tank chiamato Identity Talks in the Tower, promosso da Giesecke+Devrient, un’azienda che produce la carta di documenti e banconote, e che vendeva “fiducia”. Il nuovo AD, che proveniva dalla Philips, voleva riflettere su come sarebbe cambiato il business della fiducia, con il Passaggio dalla carta al digitale.
Lì iniziai a riflettere sul tema dell’identità. L’identità non è definita; è definito il documento. Io dico sempre che, tornando indietro, avrei chiamato SPID ”Sistema di Autenticazione”, non di Identità, per via delle incomprensioni tra informatici e giuristi.
In Italia, i tentativi precedenti (CIE, CNS, CRS) non avevano funzionato, salvo che in Trentino, dove avevano distribuito un lettore standard a ogni famiglia. Bisogna sapere che la baseline di autenticazione nell’amministrazione è una fotocopia di un documento inviata per fax o allegata a una mail. Quando ci chiedono “mi mandi una copia del documento” è per fare una autenticazione. Quel livello di sicurezza è la base di partenza.
La mia idea iniziale era quella che fu poi adottata in Scandinavia: c’erano circa 4 milioni di token di strong authentication già distribuiti dalle banche. Visto che il livello di affidabilità delle credenziali bancarie è molto maggiore di una fotocopia, proposi di usare quelle come punto di partenza. In questo modo si fa un salto in alto nella possibilità di erogare servizi digitali.
Il progetto di identità digitale partì con il Governo Letta. Io, purtroppo, ero in ospedale dopo l’incidente. Francesco Caio, Commissario per l’agenda digitale, venne a trovarmi. Mi disse che aveva trovato due progetti che non andavano avanti: l’hub dei pagamenti (PagoPA) e la centralizzazione dell’anagrafe (ANPR). Io gli dissi: “Queste due cose vanno bene, ma per arrivare alla radice, devi fare un sistema di autenticazione condiviso.”
La gestione del ciclo di vita delle credenziali è un onere che per una piccola amministrazione non ha senso sostenere. Ad esempio, un comune per il servizio cimiteriale, non si mette ad erogare e gestire credenziali (con revoca, sospensione, smarrimento, call center, eccetera). Se si isola la gestione delle credenziali e la si mette a fattore comune con delle API, si crea un sistema riutilizzabile da tutti. Francesco capì l’idea, la propose ad Enrico Letta e il progetto che io stavo sviluppando come proposta di legge prese la corsia di sorpasso e fu inserito in un decreto del governo.
C’è poi da considerare, rispetto alla CIE, che l’identità può essere rilasciata da diversi operatori, cosa che è fondamentale per una questione di indipendenza degli enti certificatori, che ha un valore democratico.
Questo è fondamentale. Il governo cinese viene criticato perché sta creando un sistema di identità digitale dove l’intermediazione monopolistica è totale. I servizi digitali diventano l’interfaccia con il mondo fisico (biglietti, pagamenti, concorsi, servizi), e a quel punto si ha qualcuno che sa tutto su di te.
È un tema che va oltre il tracciamento, l’accumulo di informazioni, perché è un abilitatore: se vuoi partecipare a un concorso e ti vengono sospese le credenziali, tu non partecipi. Chi gestisce il sistema ha un potere immenso.
Per questo ho pensato a SPID con un insieme di intermediari, per mitigare il rischio del singolo punto di controllo, cosa che verrà estremizzata con l’aggiornamento tecnologico previsto dalle nuove norme europee in materia, con il passaggio a un portafoglio digitale (il cosiddetto “wallet”), cosa che caldeggiai nel 2018.
Stefano, mi sa che il tempo a mia disposizione è finito, ma le mie domande sarebbero ancora tante, cosa dici se continuiamo questa conversazione più avanti?
Dai, fissa.
È tutto. Ringrazio Stefano per il tempo che mi ha dedicato e per aver condiviso con me le sue opinioni.
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Ale
P.S. chissà, forse con Stefano ci rivedremo presto…
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